martedì, 03 dicembre 2024 | 12:07

Bancarotta fraudolente: responsabile l'amministratore unico che aggrava il dissesto della società

Compimento di operazioni dolose tramite l'omesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei tributi (Cassazione –sentenza 20 novembre 2024 n. 42564 , sez. V pen.)

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Bancarotta fraudolente: responsabile l'amministratore unico che aggrava il dissesto della società

Compimento di operazioni dolose tramite l'omesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei tributi (Cassazione –sentenza 20 novembre 2024 n. 42564 , sez. V pen.)

Nella fattispecie posta all'esame della Cassazione, la Corte d'appello di Milano, con sentenza in parziale riforma della decisione del Tribunale di Milano, ha ritenuto l'amministratore unico di una società, successivamente fallita, responsabile del reato di cui agli artt. 110 codice penale e 223, comma 2, n. 2), legge fallimentare, perché aggravava il dissesto della stessa società compiendo operazioni dolose tramite l'omesso versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali e dei tributi.

Avverso tale sentenza l'amministratore ha proposto ricorso per Cassazione, in quanto, la Corte territoriale avrebbe omesso di considerare che la formulazione di una proposta di concordato preventivo, che avuto esito negativo solo per l'opposizione dell'Agenzia delle entrate, nonché la sopravvenienza di modifiche normative che avevano significativamente diminuito gli incentivi di cui la società usufruiva, inducevano ad escludere la prevedibilità in capo al ricorrente della decozione della società e comunque dell'elemento soggettivo del reato. La sentenza impugnata aveva inoltre omesso di considerare la circostanza che il ricorrente aveva ricoperto la carica di amministratore solo per due periodi non continuativi. Nessuna motivazione la Corte d'appello avrebbe reso sulla ritenuta natura dolosa della condotta dell'imputato di aggravamento del dissesto, dovendosi al limite rinvenire un'ipotesi di colpa grave. L'affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale la riduzione dei contributi statali all'attività svolta dalla società avrebbe dovuto portare «a ben altre scelte strategiche», sarebbe tale da inquadrare la fattispecie nell'ipotesi di cui all'art. 217, comma 1, n. 4), legge fall., sicché non si comprenderebbero le ragioni per cui sarebbe stata affermata la responsabilità dell'imputato per il reato di bancarotta fraudolenta impropria.

Per la Suprema Corte il ricorso è infondato e deve pertanto essere rigettato.

Al riguardo, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che, in tema di bancarotta fraudolenta, le operazioni dolose di cui all’art. 223, comma 2, n. 2, L. Fall., attengono alla commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato. Ciò che rileva ai fini della bancarotta fraudolenta impropria, non è l'immediato depauperamento della società, bensì la creazione o l'aggravamento di una situazione di dissesto economico che, prevedibilmente, condurrà al fallimento della società.

Pertanto, si è affermato che le operazioni dolose di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, legge fall., ben possono consistere nel mancato versamento dei contributi previdenziali con carattere di sistematicità, nonché nel sistematico inadempimento delle obbligazioni fiscali, le quali, aumentando ingiustificatamente l'esposizione nei confronti degli enti previdenziali e dell'erario, rendono prevedibile il conseguente dissesto della società.

Nel caso in esame, la sentenza impugnata ha compiutamente e adeguatamente ricostruito le vicende della società ed in particolare la progressiva e costante esposizione debitoria della società, evidenziando che l'inadempimento delle obbligazioni fiscali e contributive era stato frutto di una scelta consapevole del ricorrente il quale aveva ricoperto la carica di amministratore proprio nel periodo (l'anno 2013), in cui detta esposizione aveva cominciato a formarsi fino a raggiungere poi circa il 60% del passivo fallimentare. La Corte territoriale ha altresì correttamente evidenziato che l'inadempimento delle obbligazioni fiscali e previdenziali è stato il frutto di una consapevole scelta gestionale, attuata fin dal 2013 e protrattasi fino al fallimento, posto che l'imputato era senz'altro in grado di avvedersi che tale prolungato inadempimento avrebbe determinato il costante aumento dell'esposizione societaria, anche in ragione della prevedibile irrogazione di sanzioni. Del pari, in modo logico e congruente ha ritenuto che la presentazione della proposta di concordato preventivo, nonché le dedotte modifiche legislative, valessero ad escludere la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato.

La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che l’art. 223, comma 1, legge fall., prevede due autonome fattispecie criminose; esse, dal punto di vista oggettivo, non presentano sostanziali differenze, mentre, da quello soggettivo, vanno tenute distinte, perché nella ipotesi di causazione dolosa del fallimento, questo è voluto specificamente, mentre nel fallimento conseguente ad operazioni dolose, esso è solo l’effetto di una condotta volontaria, ma non intenzionalmente diretta a produrre il dissesto fallimentare, anche se il soggetto attivo dell'operazione ha accettato il rischio della stessa. La prima fattispecie è dunque a dolo specifico, mentre la seconda è a dolo generico. Non cade pertanto in contraddizione il giudice di merito che ritenga insussistente il dolo (specifico) diretto alla causazione del fallimento, ed, al contempo, ravvisi il dolo (generico) in relazione a singole operazioni distrattive, che hanno determinato il fallimento. La nozione di operazioni dolose di cui all'art. 223, comma 2, n. 2, prevede il comportamento degli amministratori che cagionino il dissesto con abusi o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero con atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa; l'elemento soggettivo richiesto, pertanto, non è la volontà diretta a provocare lo stato di insolvenza, essendo sufficiente la coscienza e volontà del comportamento sopra indicato. Questa Corte ha inoltre affermato che in tema di fallimento determinato da operazioni dolose, che si sostanzia in un'eccezionale ipotesi di fattispecie a sfondo preterintenzionale, l'onere probatorio dell'accusa si esaurisce nella dimostrazione della consapevolezza e volontà della natura "dolosa" dell'operazione alla quale segue il dissesto, nonché dell'astratta prevedibilità di tale evento quale effetto dell'azione antidoverosa, non essendo necessarie, ai fini dell'integrazione dell'elemento soggettivo, la rappresentazione e la volontà dell'evento fallimentare . Nell'ipotesi di fallimento causato da operazioni dolose non determinanti un immediato depauperamento della società, la condotta di reato è configurabile quando la realizzazione di tali operazioni si accompagni, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, alla prevedibilità del dissesto come effetto della condotta antidoverosa.

Tanto premesso, la sentenza impugnata risulta immune da censure, avendo appunto affermato la sussistenza del dolo generico delle operazioni dolose, consistite nel sistematico inadempimento degli obblighi tributari e contributivi, e la prevedibilità del dissesto, conseguente all'accumulazione di un'esposizione superiore a due milioni di euro, di cui oltre il 60% per debiti tributari e contributivi.

Con motivazione ineccepibile, la Corte territoriale ha evidenziato come la quasi totalità del passivo della società fallita fosse riconducibile a debiti tributari e contributivi formatisi già a partire dall'anno 2013 e considerevolmente incrementati negli anni seguenti, a fronte di un patrimonio netto solo formalmente positivo, in quanto costituito da partecipazioni ad altre società del gruppo, rivelatosi poi nullo. In tale situazione la sentenza impugnata ha del tutto correttamente valutato come irrilevante sia il progetto di riorganizzazione e ricapitalizzazione evocato dal ricorrente, i cui termini neppure risultano specificati, sia le modifiche normative che avevano comportato la riduzione dei contributi statali e una differente modalità di erogazione, posto che esse risalivano all'anno 2008.

di Daniela Nannola

Fonte Normativa

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