venerdì, 11 ottobre 2024 | 11:37

Provvedimenti limitativi della libertà personale e impossibilità prolungata della prestazione lavorativa

La sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva, anche per fatti estranei al rapporto di lavoro, consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo qualora non persista l'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile, a carico del datore di lavoro, l'obbligo di repêchage (Cassazione - ordinanza 7 ottobre 2024 n. 26208, sez. lav.)

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Provvedimenti limitativi della libertà personale e impossibilità prolungata della prestazione lavorativa

La sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva, anche per fatti estranei al rapporto di lavoro, consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo qualora non persista l'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile, a carico del datore di lavoro, l'obbligo di repêchage (Cassazione - ordinanza 7 ottobre 2024 n. 26208, sez. lav.)

Il caso

La Corte d'Appello di Napoli confermava la legittimità del licenziamento irrogato da una società datrice di lavoro ad un proprio dipendente, che era stato destinatario di un provvedimento di restrizione della libertà personale (arresti domiciliari), poi tramutato, dopo dieci mesi, in obbligo di firma quotidiano, che aveva comportato la sospensione del rapporto di lavoro e la mancata prestazione lavorativa per il periodo di 1 anno.
L'azienda, decorso il termine di dodici mesi previsto dalla norma contrattuale collettiva, aveva comunicato la risoluzione del rapporto, atteso che, anche in seguito alla modifica della misura cautelare, detta condizione risultava incompatibile con l'organizzazione aziendale. In particolare, la fattispecie regolata dalla norma contrattuale collettiva veniva ricondotta alla verificazione di fatto che, ancorchè non imputabile al lavoratore, è tale da non consentire di fornire la regolare prestazione lavorativa, quale impossibilità sopravvenuta con effetti estintivi del rapporto, secondo una previsione contrattuale che individua l'arco temporale di tolleranza ex ante in dodici mesi.
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, evidenziando, preliminarmente, con riguardo alla fattispecie regolata dalla norma contrattuale collettiva applicata nel caso in esame, che la sottoposizione del lavoratore a carcerazione preventiva (anche per fatti estranei al rapporto di lavoro) non costituisce inadempimento degli obblighi contrattuali, ma consente il licenziamento per giustificato motivo oggettivo ove, in base ad un giudizio ex ante, tenuto conto di ogni circostanza rilevante ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza (tra cui le dimensioni dell'impresa, il tipo di organizzazione tecnico-produttiva, le mansioni del dipendente, il già maturato periodo di sua assenza, la ragionevolmente prevedibile ulteriore durata dell'impedimento, la possibilità di affidare temporaneamente ad altri le mansioni senza necessità di nuove assunzioni), non persista l'interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente, senza che sia configurabile, inoltre, a carico del datore di lavoro, l'obbligo di repechage.
Il Collegio ha, inoltre, rilevato che la riconduzione della fattispecie alla categoria generale dell'impossibilità sopravvenuta dell'obbligazione di cui agli artt. 1463 e 1464 c.c. significa che la specifica fattispecie come regolata dal CCNL applicato al rapporto configura il recesso come determinato dalla mancanza di un interesse apprezzabile all'adempimento parziale della prestazione, rimanendo la persistenza o meno di un interesse rilevante a ricevere le possibili prestazioni, in ipotesi di assenza dal lavoro per carcerazione preventiva o altra misura cautelare, da parametrare alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati dall'art. 3, L n. 604/1966, e cioè con riferimento alle oggettive esigenze dell'impresa, da svolgere, però, con una valutazione ex ante, e non già ex post, in cui si tenga conto di tutte le circostanze rilevanti ai fini della determinazione della tollerabilità dell'assenza.
Ebbene, secondo i giudici di legittimità, nel caso di specie, la Corte territoriale si era attenuta a tali principi, in particolare alla regola per cui la sussistenza dell'impedimento va verificata al momento del recesso e, con accertamento in fatto, aveva correttamente ritenuto che il protrarsi dell'assenza del dipendente, per più di un anno, fosse tale da determinare la perdita di interesse del datore di lavoro all'eventuale prestazione residua.

di Chiara Ranaudo

Fonte normativa