martedì, 15 ottobre 2024 | 11:52

Fuoriuscita di sostanze tossiche nei locali aziendali: niente licenziamento per la lavoratrice che si sfoga sui social

Illegittimo il licenziamento della lavoratrice che, in ragione dell’infortunio subito dal marito a seguito della fuga di sostanze tossiche avvenuta in ambiente lavorativo, si sfogava sul suo profilo Facebook contro il datore di lavoro responsabile che aveva ingiustamente minimizzato l’accaduto (Cassazione - ordinanza 10 ottobre 2024 n. 26446, sez. lav.)

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Fuoriuscita di sostanze tossiche nei locali aziendali: niente licenziamento per la lavoratrice che si sfoga sui social

Illegittimo il licenziamento della lavoratrice che, in ragione dell’infortunio subito dal marito a seguito della fuga di sostanze tossiche avvenuta in ambiente lavorativo, si sfogava sul suo profilo Facebook contro il datore di lavoro responsabile che aveva ingiustamente minimizzato l’accaduto (Cassazione - ordinanza 10 ottobre 2024 n. 26446, sez. lav.)

Il caso

La Corte di appello di Firenze annullava il licenziamento intimato ad una lavoratrice alla quale la società datrice di lavoro aveva contestato di aver pubblicato sul proprio profilo Facebook frasi altamente denigratorie, offensive e diffamatorie nei confronti della società e, in particolare, verso la persona del suo amministratore delegato.
I fatti oggetto dell'addebito erano inquadrabili nelle vicende legate alla salubrità degli ambienti di una palazzina che ospitava anche l'impianto di potabilizzazione della società, nei cui locali si era verificata una fuoriuscita di sostanze tossiche che aveva provocato l’ intossicazione di sei lavoratori, tra cui il marito della dipendente licenziata.
In relazione a tale episodio, preceduto da una lunga serie di doglianze dei lavoratori riguardanti la salubrità dell'area dello stabile, la dipendente aveva scritto le frasi contestate.
I giudici di secondo grado, pertanto, ritenendo che ricorresse, nella fattispecie, l'ipotesi della esimente di cui all'art. 599 cp (avere commesso i fatti di cui all'art. 595 cp nello stato di ira determinato da un fatto ingiusto altrui e subito dopo di esso), escludevano che il fatto addebitato potesse essere qualificato come delitto, per il quale il CCNL di categoria prevedeva il licenziamento per giusta causa, ed evidenziavano anche che non si verteva in un’ ipotesi di insubordinazione, non ravvisabile nei commenti in contestazione. Il recesso veniva, dunque, giudicato illegittimo per essere la sanzione irrogata sproporzionata rispetto all'illecito, pur avendo la vicenda rilievo disciplinare.
Avverso tale sentenza la società ha proposto ricorso per cassazione.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, ritenendo che la Corte di appello avesse svolto un esame completo e condivisibile della vicenda, sia sotto il profilo penalistico che sotto quello civilistico, giungendo al risultato di escludere la possibilità di irrogare la sanzione espulsiva, pur in presenza di un rilievo disciplinare della condotta della lavoratrice.
I giudici di merito, in particolare, si erano pronunciati sulla problematica se la condotta riscontrata potesse essere rilevante ai fini della sussistenza della giusta causa di licenziamento e la conclusione raggiunta era stata negativa in quanto gli stessi fatti, che sul piano penalistico erano stati ritenuti idonei ad escludere la esistenza di un delitto, erano stati poi considerati rilevanti, sul piano del rapporto di lavoro, ai fini della valutazione della non gravità del fatto, essendo stato qualificato come uno "sfogo" legato alla particolare emotività determinata da un accadimento contingente che la lavoratrice, non irragionevolmente, aveva ritenuto potersi essere realizzato e, secondo lei, ingiustamente minimizzato dalla datrice di lavoro.
Con riferimento, poi, agli aspetti più propriamente penalistici, il Collegio ha evidenziato che anche l'applicabilità della causa di non punibilità della provocazione, di cui all'art. 599 cp, fosse corretta.
Si era, difatti, in presenza di un fatto ingiusto (fuga di sostanze tossiche avvenuta in ambiente lavorativo, quale evento che non può trovare giustificazione in disposizioni normative o nelle regole del vivere della civile convivenza), ritenuto di responsabilità della datrice di lavoro, con una reazione istantanea, da parte di un soggetto, la lavoratrice, che era comunque coinvolto - in quanto era rimasto infortunato nell'evento il marito - e, quindi, in presenza di uno stato di ira.
Nel caso in esame, inoltre, come evidenziato dai giudici di legittimità, correttamente la Corte di merito aveva escluso che gli addebiti mossi rientrassero nell'ambito applicativo del concetto di insubordinazione, in quanto concretamente la vicenda non aveva riguardato aspetti che afferivano all'osservanza di disposizioni interne dettate dal datore di lavoro circa l'uso di beni aziendali, con la messa in discussione dell'autorità dei preposti della datrice di lavoro, bensì concerneva l'uso di espressioni, obiettivamente offensive e diffamatorie, proferite in una situazione in cui il rischio di un evento, più volte denunciato, si era invece verificato. Non era, invero, ravvisabile nè un rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori gerarchici, tale da incidere sull'obbligo di diligenza della prestazione lavorativa, nè l'inosservanza delle disposizioni per l'esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall'imprenditore o dai suoi collaboratori.

Di Chiara Ranaudo

Fonte normativa