Mobbing: responsabilità extracontrattuale del superiore gerarchico
In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale. Ne consegue che la dimostrazione di tale responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani (Cassazione - ordinanza 13 novembre 2024 n. 29310, sez. lav.)
Mobbing: responsabilità extracontrattuale del superiore gerarchico
In tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale. Ne consegue che la dimostrazione di tale responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani (Cassazione - ordinanza 13 novembre 2024 n. 29310, sez. lav.)
La Corte d'appello di Bari confermava la sentenza del Tribunale che aveva rigettato la domanda proposta da un dipendente del Ministero della Giustizia contro una dirigente della stessa P.A., volta ad accertare comportamenti vessatori, denigratori e mobbizzanti imputabili alla stessa, con condanna di quest'ultima a risarcire i danni patrimoniali e non nella misura di € 500.000,00.
Avverso la decisione della Corte di appello il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra i motivi, che la responsabilità per mobbing si sarebbe fondata sull'art. 2087 c.c. e che la Corte territoriale avrebbe errato nel qualificarla, nella specie, come aquiliana. In particolare, il dipendente ha sostenuto che la funzionaria, in ragione del rapporto di immedesimazione organica con la P.A., avrebbe dovuto essere qualificata come datore di lavoro, in quanto essa avrebbe posto in essere le condotte mobbizzanti in suo danno proprio in virtù dei poteri propri del datore di lavoro ad essa conferiti dalle leggi nonché dal contratto di lavoro.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, rilevando, in primo luogo, che l'art. 2087 c.c. si riferisce al datore di lavoro, ossia al soggetto con il quale intercorre il rapporto di lavoro del dipendente.
Pertanto, il lavoratore, nel caso di specie, non poteva ricorrere, ai sensi dell'art. 2087 c.c., nei confronti della dirigente che agiva in base al rapporto di immedesimazione organica con l'ente; l'azione contrattuale avrebbe dovuto essere introdotta contro il Ministero della Giustizia, che era titolare del rapporto di lavoro.
Il Collegio ha, inoltre, evidenziato che la riconducibilità della responsabilità del funzionario autore degli atti mobbizzanti non all'art. 2087 c.c., ma all'art. 2043 c.c., si ricava dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità, per la quale, per potere configurare il mobbing, al comportamento doloso del collega di lavoro deve accompagnarsi quello colposo del datore di lavoro, che, in violazione dell'art. 2087 c.c., non ponga in essere tutte le cautele necessarie a evitare la nocività del luogo di lavoro in danno alla persona del proprio dipendente. Nel caso di specie il dipendente aveva denunciato una responsabilità diretta della sola dirigente, alla quale aveva ascritto una strategia persecutoria mirata.
Sulla base di tali presupposti la Cassazione ha affermato il principio di diritto secondo cui, in tema di mobbing, la responsabilità esclusiva di altro dipendente, il quale si trovi eventualmente in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, è configurabile solo ai sensi dell'art. 2043 c.c. e non a titolo contrattuale, essendo egli soggetto terzo con riguardo al rapporto di lavoro. Ne consegue che la dimostrazione di tale responsabilità dovrà essere fornita applicando le regole previste per gli illeciti aquiliani, in particolare quelle sulla ripartizione dell'onere della prova, e che la relativa azione si prescriverà nel termine di cinque anni.
Di Chiara Ranaudo
Fonte normativa
- Cassazione - ordinanza 13 novembre 2024 n. 29310, sez. lav.