Niente licenziamento per l’intemperanza verbale del lavoratore
Eccessiva la sanzione espulsiva per la condotta arrogante del lavoratore che abbia rivolto espressione offensive nei confronti di un collega in presenza di altro dipendente (Cassazione - ordinanza 6 marzo 2025 n. 5940, sez. lav.)
Niente licenziamento per l’intemperanza verbale del lavoratore
Eccessiva la sanzione espulsiva per la condotta arrogante del lavoratore che abbia rivolto espressione offensive nei confronti di un collega in presenza di altro dipendente (Cassazione - ordinanza 6 marzo 2025 n. 5940, sez. lav.)
Un lavoratore dipendente di una srl veniva licenziato per giusta causa sulla base dell'addebito disciplinare di aver rivolto ad un suo collega espressioni offensive quali "finto tonto", "incompetente", "te non hai capito qual è il problema e non mi meraviglio", in presenza di un terzo dipendente.
Il Tribunale di Firenze, adito dal lavoratore per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento e la reintegra, riteneva sussistente un licenziamento per giustificato motivo soggettivo e limitava la condanna della società al pagamento dell'indennità sostitutiva del preavviso.
La Corte d'Appello ravvisava la sproporzione della sanzione espulsiva rispetto al fatto accertato, rilevando che, pur trattandosi di una forma di comunicazione apertamente sprezzante ed ostile, si era in presenza di un'intemperanza verbale del lavoratore certamente grave ma relativa ad un singolo episodio che non era trasceso oltre l'offesa verbale, non aveva provocato conseguenze rilevanti sull'andamento del lavoro né aveva arrecato danno all'azienda.
La condotta del lavoratore, in termini di arroganza dimostrata nei confronti di un collega, in presenza di altro dipendente, avrebbe dovuto essere sanzionata con la sospensione, laddove il licenziamento risultava sanzione eccessiva.
Sulla base di tali presupposti la Corte territoriale dichiarava risolto il rapporto di lavoro e condannava la datrice di lavoro a pagare al lavoratore l'indennità risarcitoria ex art. 18, co. 5, L. n. 300/1970.
Avverso tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra i motivi, la mancata applicazione della tutela reintegratoria.
La Suprema Corte ha rigettato il ricorso, rilevando che l'art. 18, co. 4, L. n. 300/1970 prevede la tutela c.d. reale (sia pure attenuata) della reintegrazione soltanto nel caso in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa.
Ebbene, come evidenziato dal Collegio, nessuna delle richiamate ipotesi ricorreva nel caso in esame, né il lavoratore aveva indicato l'eventuale clausola del contratto collettivo (o del codice disciplinare aziendale) che prevedesse in ipotesi espressamente la condotta - in concreto a lui contestata sul piano disciplinare - come punibile con sanzione conservativa. Era soltanto sul piano dell'apprezzamento della proporzione sanzionatoria che la Corte territoriale si era spinta a ritenere che, al massimo, la condotta in concreto accertata sarebbe stata sanzionabile con una sospensione dal servizio e dalla retribuzione.
Tanto premesso, i giudici di legittimità hanno ritenuto condivisibili le conclusioni della sentenza impugnata e confermato la condanna della società al pagamento dell’ indennità risarcitoria.
Di Chiara Ranaudo
Fonte normativa