Lavoratore disabile: diritto allo smart working
Al lavoratore disabile deve essere riconosciuto il diritto al lavoro agile, quale misura di accomodamento ragionevole volta a salvaguardarne la salute e il diritto al lavoro in condizioni di parità con i colleghi normodotati (Tribunale Mantova - sentenza 5 marzo 2025 n. 77, sez. lav.)
Lavoratore disabile: diritto allo smart working
Al lavoratore disabile deve essere riconosciuto il diritto al lavoro agile, quale misura di accomodamento ragionevole volta a salvaguardarne la salute e il diritto al lavoro in condizioni di parità con i colleghi normodotati (Tribunale Mantova - sentenza 5 marzo 2025 n. 77, sez. lav.)
La vicenda trae le mosse dal ricorso proposto dinanzi al Tribunale di Mantova da un lavoratore diventato invalido a seguito di infortunio sul lavoro, al fine di ottenere il riconoscimento del diritto a svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile, in toto o almeno all'80% del tempo di lavoro, presso la sua abitazione.
Dalla documentazione versata in causa risultava che il lavoratore successivamente all'infortunio avesse maturato un’ (in)sofferenza psichica rispetto ai luoghi di lavoro aziendale associati all'evento traumatico e al conseguente stravolgimento in senso peggiorativo della sua vita, che si era strutturata in forma patologica permanente, determinando costanti attacchi di ansia, panico e depressione, necessità di assunzione di psicofarmaci e ricorrenti assenze per malattia; in tale quadro la permanenza sul luogo di lavoro costituiva grave fattore di rischio di ulteriore aggravamento dello stato psico-fisico del lavoratore che poteva essere evitato da una collocazione in smart working, tale da limitare il sovraccarico emozionale. Il medico competente, in particolare, nel confermare la idoneità alla mansione specifica del lavoratore, sia pure con limitazioni, aveva dichiarato consigliabile l'attività di smart working e medesima indicazione emergeva dalla valutazione psichiatrica che individuava l'attuazione dello smart working come soluzione organizzativa lavorativa adeguata per preservare la salute del dipendente.
La società in prima battuta aveva opposto l'impossibilità tout court di concedere il lavoro agile al lavoratore perchè contrario alla policy aziendale e in contrasto con le esigenze organizzative, sul presupposto che le mansioni affidate al dipendente richiedessero la costante interazione con i colleghi. In corso di causa, in un’ ottica transattiva, la stessa azienda aveva, poi, offerto al lavoratore la possibilità di svolgere l'attività lavorativa in smart working per soli due giorni a settimana, dovendo essere eseguita prevalentemente in presenza negli uffici amministrativi dell'azienda.
Il lavoratore, tuttavia, riteneva insoddisfacente la proposta, giudicando indispensabile per la sua salute psichica e fisica la garanzia di poter lavorare in modalità smart working almeno tre giorni alla settimana su cinque fino al pensionamento.
Il Tribunale ha accolto le richieste del lavoratore, rilevando che, indipendentemente dall'esistenza di una norma di legge che imponga il ricorso al lavoro agile, tale modalità di espletamento dell'attività lavorativa può costituire una misura efficace ed appropriata al fine di rendere effettivo il principio di parità di trattamento per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro.
A tale riguardo l''art. 5 della direttiva 2000/78/CE stabilisce che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perchè possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.
L'adozione di tali misure organizzative è prevista in ogni fase del rapporto di lavoro, da quella genetica a quella della risoluzione, non essendo specificamente destinate a prevenire un licenziamento.
Quanto alla ripartizione dell'onere della prova, a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell'Unione europea, quale fonte dell'obbligo datoriale di ricercare soluzioni ragionevoli, graverà sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto all'obbligo di "accomodamento" ovvero che l'inadempimento sia dovuto a causa non imputabile.
Tanto premesso, il giudicante ha ritenuto che, nel caso di specie, il lavoratore avesse assolto all'onere della prova a suo carico in ordine all'insufficienza della misura proposta dalla società datrice; di contro, l'azienda non aveva dimostrato, nè offerto di provare efficacemente, le esigenze organizzative ostative all'estensione dello smart working e, tanto meno, l'inutilità di siffatta prestazione con modalità “agili” e/o la necessità di sostenere oneri finanziari sproporzionati e/o il pregiudizio per le condizioni di lavoro di uno o più colleghi e, in ogni caso la prova dedotta circa la necessità per il lavoratore di svolgere prevalentemente la propria attività in azienda risultava inadeguata laddove i certificati medici prodotti dal dipendente indicavano il lavoro agile quale unica o migliore soluzione percorribile.
Sulla base di tali presupposti, il Tribunale ha ritenuto dimostrata la ragionevolezza e la “praticabilità” dell'accomodamento consistente nel riconoscere il diritto del lavoratore di svolgere l'attività lavorativa in regime di lavoro agile per tre giorni alla settimana.
Di Chiara Ranaudo
Fonte normativa