lunedì, 07 aprile 2025 | 13:08

Pause al bar troppo lunghe durante l'orario di lavoro: licenziato il lavoratore

Legittimo il licenziamento del lavoratore che, durante l'orario di lavoro, abbia effettuato frequenti e prolungate soste in esercizi pubblici-bar per un periodo eccedente l'arco temporale consentito (Cassazione - sentenza 02 aprile 2025 n. 8707, sez. lav.)

Newsletter Inquery

Pause al bar troppo lunghe durante l'orario di lavoro: licenziato il lavoratore

Legittimo il licenziamento del lavoratore che, durante l'orario di lavoro, abbia effettuato frequenti e prolungate soste in esercizi pubblici-bar per un periodo eccedente l'arco temporale consentito (Cassazione - sentenza 02 aprile 2025 n. 8707, sez. lav.)

Il caso

La Corte di appello di Cagliari riteneva legittimo il licenziamento intimato da una società datrice di lavoro ad un proprio dipendente a fronte dell'accertato inadempimento degli obblighi concernenti le pause intermedie osservate durante l'orario di lavoro e, in particolare, le frequenti e prolungate soste in alcuni esercizi pubblici-bar dei Comuni in cui il lavoratore - addetto al ritiro porta a porta di rifiuti urbani - doveva svolgere il servizio.
La Corte territoriale rilevava che il quadro probatorio raccolto, composto dall'acquisizione di una relazione investigativa, dall'analisi dei GPS installati sui mezzi di raccolta dei rifiuti guidati dal dipendente, dalla deposizione di diversi testimoni, aveva dimostrato che il lavoratore, durante l'orario lavorativo, si era trattenuto presso diversi bar per un periodo di tempo che eccedeva l'arco temporale previsto dall'art. 8, DLgs n. 66 del 2003 e dal contratto di lavoro.
Con particolare riguardo all'utilizzazione degli esiti della relazione investigativa, la Corte sottolineava che il controllo era stato delegato solamente dopo il sorgere del sospetto, da parte del datore di lavoro, di comportamenti che integravano una condotta fraudolenta, suscettibile di incidere sul patrimonio aziendale (nonché sull'immagine dell'azienda) alla luce degli obblighi assunti nei confronti del committente (di regolare e diligente svolgimento del servizio pubblico di raccolta dei rifiuti). Da tanto conseguiva che il provvedimento espulsivo risultasse proporzionato rispetto all'infrazione disciplinare contestata avuto, complessivamente, riguardo alla natura della violazione, alla relativa reiterazione (che aveva determinato un richiamo da parte della committente nonché precedenti provvedimenti disciplinari), alle modalità della condotta e all'elemento soggettivo del lavoratore, anche con riguardo alla scala valoriale dettata dalle parti sociali in tema di sanzioni disciplinari, né assumeva alcun rilievo la mancata esposizione del codice disciplinare, trattandosi di violazione dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il lavoratore.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha ritenuto infondate le doglianze del lavoratore, rilevando, preliminarmente, che i controlli del datore di lavoro, anche a mezzo di agenzia investigativa, sono legittimi ove siano finalizzati a verificare comportamenti del lavoratore che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo.
Il Collegio ha, inoltre, richiamato la nozione di "patrimonio aziendale" tutelabile in sede di esercizio del potere di controllo dell'attività dei lavoratori, specificando che essa vada intesa in una accezione estesa, riconoscendo il diritto del datore di lavoro di tutelare il proprio patrimonio, costituito non solo dal complesso dei beni aziendali, ma anche dalla propria immagine esterna, cosi come accreditata presso il pubblico.
Ebbene, nella fattispecie in esame, il convincimento della Corte territoriale si era basato sull'esito di un'attività investigativa, oggetto anche di prova testimoniale degli investigatori, rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto esercitata in luoghi pubblici, ove era stato accertato che, per alcuni giorni, il lavoratore aveva adottato un comportamento illecito, suscettibile altresì di rilievo penale o, comunque, idoneo a raggirare il datore di lavoro e a ledere non solo il patrimonio aziendale ma anche l'immagine e la reputazione dell'azienda all'esterno.
Sulla base di tali presupposti i giudici di legittimità hanno ritenuto condivisibili le conclusioni dei giudici di merito circa il fatto che, nel caso in esame, il controllo esercitato dal la società datrice di lavoro non fosse diretto a verificare le modalità di adempimento dell'obbligazione lavorativa, bensì il compimento di atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell'obbligazione contrattuale.
Infine, la Cassazione non ha mancato di richiamare il consolidato orientamento secondo cui la pubblicizzazione del Codice disciplinare mediante affissione non è condizione indefettibile dell'azione disciplinare, allorquando vi sia violazione del c.d. minimo etico, in quanto la funzione della pregressa previsione in un testo che sia affisso o pubblicato non è quella di fondare in assoluto il potere disciplinare ma è invece quella di predisporre e regolare le sanzioni rispetto a fatti di diversa caratura, la cui mancata previsione potrebbe far ritenere che la reazione datoriale risponda a criteri repressivi che inopinatamente valorizzino ex post e strumentalmente taluni comportamenti del lavoratore; tale esigenza non ricorre nei casi, come quello di specie, in cui la gravità assoluta derivi dal contrasto con il predetto "minimo etico", atteso che il lavoratore non può non percepire ex ante che il proprio comportamento sia illecito e tale da pregiudicare anche il rapporto di lavoro in essere.

di Chiara Ranaudo

Fonte normativa